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  • parlami

    Milano, gennaio 2094.

    E’ notte. Mi aggiro guardingo per le vie deserte.
    Non dovrei farlo, rischio parecchio. Mi giudicheranno un pervertito, se mi beccano.
    La donna è lì, un isolato più avanti, all’angolo della strada. E’ illuminata fiocamente da un lampione al sodio, mentre sta digitando qualcosa su un iPhone 43s.
    La osservo. Ha un aspetto piuttosto attraente, indossa un paio d’occhiali da vista ed un cappotto pesante. Le spunta dalla tasca la parte superiore di un libro, una copia di 1984 di Orwell: il suo segno di riconoscimento.
    Mi schiarisco la voce per farmi notare.
    Lei mi squadra, fa un cenno con la testa.
    Le porgo il mio libro, la mia moneta di scambio: un’edizione economica di Blade Runner. Non vale molto: spero non si offenda.
    Faremo alla svelta.
    Si avvia verso la sua auto, mi fa segno di seguirla.
    Si siede, fa partire il conto alla rovescia sull’iPhone. Lo setta a 30 minuti di tempo. 29:59, 29:58, 29:57…

    …ed iniziamo a parlare, parlare, parlare.

    Chiacchieriamo come persone libere, finalmente, senza monitor come intermediari. Come facevano i nostri padri, ed i padri dei nostri padri.
    Parliamo della giornata di oggi e del nostro lavoro, parliamo di come ci siamo ridotti, di come, già ai tempi dei nostri nonni, quando salivi su un treno l’intero vagone era pieno di gente che si rincoglioniva davanti allo schermo di un cellulare.
    Parliamo godendo del suono delle nostre voci, che ormai si sono abbassate, a furia di usarle così poco. Ci raccontiamo delle nostre vite, parliamo dei nostri figli, delle nostre famiglie, del nostro futuro.
    Le racconto che mio nonno lavorava in una biblioteca, un posto pieno di libri di carta… già, proprio quelli che sono andati fuori produzione pochi anni fa. Le racconto di quanto vorrei tornare a parlare con mia moglie, anche ora che usare la voce è diventato un tabù sociale, ma lei, semplicemente, si rifiuta di accettarlo e mi guarda come se fossi un pervertito.

    Il tempo passa in fretta, ormai i trenta minuti sono scaduti da un bel pezzo, ma a lei non interessa… e neanche a me.

    Nel frattempo mia moglie mi ha già mandato tre SMS. Immagino che sappia benissimo quello che faccio, visto il mio insistere così tanto sul tema.
    Dopotutto, mi hanno detto di averla sentita nel retrobottega del suo panificio mentre chiacchierava a voce alta con il tecnico che le ripara il terminale, quello sul quale i clienti in coda digitano le ordinazioni.
    A voce alta, capite?
    Con un altro uomo… e così, spudoratamente, in presenza di altre persone!
    E’ stato da allora che ho iniziato queste mie piccole scorribande notturne.
    Volevo e voglio soprattutto soddisfare quell’esigenza fisica di comunicare dal vivo, per la quale, lo so, sicuramente mi giudicherete una specie di maniaco, un deviato… ma le faccio anche un po’ per ripicca, lo ammetto.

    Non l’ho ancora perdonata, non del tutto. Anche se capisco benissimo che tutti noi, lei compresa, abbiamo bisogno di una valvola di sfogo.
    Spero che sia stato soltanto un episodio isolato.
    Ma viste le facce che fanno i miei vicini quando mi vedono, gli sguardi e le risatine che mi seguono ad ogni passo, non ci giurerei.

    Ringrazio la donna, la saluto e mi incammino verso casa, a pochi isolati di distanza.
    Digito sul citofono “Cara, sono io! Scusa per il ritardo” e aggiungo una faccina triste.

    ChatGPT Image 11 apr 2025, 17_06_29.
    → 11:30 PM, Apr 11
  • rewind

    Notte.
    L’uomo si sveglia, si alza, va in bagno. La sveglia sul comodino, con i suoi caratteri azzurri un po’ troppo luminosi, segna 04:31.
    Rientra nella stanza alle 04:34, torna a coricarsi, chiude gli occhi. Tenta di riaddormentarsi.
    Passano ventuno minuti.
    L’uomo non riesce a riprendere sonno. Riapre gli occhi, poi li richiude. La sveglia segna le 04:55.
    La cosa accade qualche minuto dopo, alle 04:58.
    Gli occhi chiusi dell’uomo si riempiono all’improvviso di una luce bianca, fortissima, simile al flash di mille macchine fotografiche. Una scossa di terremoto scuote la stanza, o forse è solo il rombo fortissimo di un jet passato a mezzo metro di distanza. Il tutto dura meno di un secondo.
    L’uomo scatta a sedere, con il cuore che batte all’impazzata.
    “Cristo santo”, esclama. Inizia a sudare. Rimane seduto, immobile, terrorizzato, con la coperta stretta tra le braccia. Non succede nient’altro.
    L’uomo tende le orecchie, ma attorno a lui ora è tornato il buio della notte e c’è solo silenzio. Inizia a tranquillizzarsi.
    “Forse era solo un dannatissimo sogno”, pensa, mentre respira profondamente, cercando di calmarsi.
    La sveglia ora segna le 04:56.
    L’uomo torna a sdraiarsi e chiude gli occhi.
    Ma niente, il sonno non vuole tornare, specialmente dopo quello che è successo, o che ha sognato, o che crede di aver sognato.
    L’uomo punta lo sguardo istintivamente sulla sveglia, che ora segna le 04:46.
    “Oh, cazzo”, pensa in un momento di lucidità, per poi scivolare nuovamente nella placida regione tra sonno e veglia.
    Riapre gli occhi, all’improvviso, con la sveglia che segna le 04:33. Ora è completamente sveglio.
    Ha sentito un rumore sospetto.
    C’è qualcuno in bagno… nel suo bagno.
    Fa la pipì rumorosamente, poi si lava le mani.
    L’uomo a letto è terrorizzato, ancora più di prima. Trema letteralmente di paura, ripensando a tutte le storie di cronaca nera lette ultimamente.
    Ora l’uomo che era in bagno ha aperto la porta. Si sta incamminando verso la camera… trascinandosi su due ciabatte, a quanto sembra dal rumore. L’uomo a letto è pazzo di paura.
    La porta della camera si apre.
    I due uomini si guardano in faccia a vicenda e cacciano all’unisono un urlo disumano, lo stesso urlo, con lo stesso timbro di voce.

    → 9:13 PM, Mar 29
  • il merlo

    Stavo parlando con Mark, ieri. Mark è il bellissimo merlo che spesso mi viene a trovare. Ha dodici anni e ogni tanto viene a zampettare sulla finestra della mia camera, alla ricerca di cibo.
    A volte prendo un pezzettino di pane dal tavolo della mensa e lo metto nella tasca del pigiama, per darlo a Mark. Una volta l’infermiera mi ha visto, mi ha chiesto perché avevo il pane in tasca e le ho detto che era per Mark, e lei mi ha guardato malissimo. Chissà perché.
    Stavo parlando con Mark, e quando viene a trovarmi è bello. Quando c’è lui non ho più voglia di piangere, anzi, certe volte rido. E poi ogni tanto Mark mi porta a volare.
    E quando ci mettiamo a volare, vedo il mondo dai suoi occhi.
    E’ quasi come quando ci portano a vedere la televisione nella sala comune. Però è più bello, perchè non c’è nessuno intorno a me e non si litiga per il telecomando.
    E vedo gli alberi sotto di me, i prati, le montagne, i ru…ruselli. O forse “ruccelli”, credo. Hanno così tanta aqua fresca! Prima o poi devo chiedere a Mark se posso berla. Qui mi danno solo delle bottigliette di plastica e l’aqua fa schifo ed è calda.
    Una volta Mark mi ha fatto vedere il suo nido. Era piccolo piccolo, e c’erano le foglie in alto che lo riparavano dalla luce del sole. E c’era dentro un uovo! Però preferisco la mia cameretta, perché almeno c’è il mio lettino e la foto della mia mamma nella cornice sul comodino.
    Mark, una volta, mi ha detto che il mondo è la fuori che mi aspetta. Che è lì anche per me. Per me! Tutte queste cose belle!
    Mi ha detto che mi hanno chiuso qui dentro perché avevo troppa fata… fantan… fatansia. Sì, credo che abbia detto così. Ogni tanto usa delle parole difficili e non lo capisco molto bene.
    E mi ha detto che ci sono degli uomini cattivi, che dicono che questo non va bene. Che devono curarmi, così mi hanno portato via dalla mia mamma appena sono nato.
    Però sono qui da tanto tanto tempo, e la mia mamma non l’ho mai vista. Chissà se piange anche lei, come piango anch’io quando guardo la sua foto. Non voglio che piange.
    Ma poi Mark mi ha detto che là fuori ci sono delle cose bellissime, anche se non le posso vedere. C’è una cosa che si chiama “amore”. Ce l’ha avuto la mia mamma quando mi ha fatto uscire dal pancione… ed è la cosa che la principessina del mio cuore mi regalerà, se gliela regalo anch’io.
    Una principessina tutta mia, proprio come quelle del mio libro di favole!
    Me l’ha detto Mark che ce ne sarà una, anche se un po’ non ci credo. Ma non diteglielo, perché ho paura che poi si arrabbia. E poi non lo so se ce l’ho, questo “amore” da regalarle.
    Ieri Mark ha detto che se voglio mi porta via con sé, per sempre. Perché sono stato buono con lui. E perché sono l’unico che parla con lui, mentre gli altri umani lo cacciano sempre via.
    Mi sa proprio che lo seguirò.
    Ma ora devo andare, che l’infermiera sta per arrivare a spegnere le luci. Ora rimetterò il diario sotto al letto. Spero che nessuno lo trovi. Me l’ha regalato un dottore buono, che mi sorride sempre e mi legge le favole.
    E’ l’unico, che mi sorride sempre.
    Buonanotte anche a te, Mark.

    → 6:43 PM, Mar 27
  • l’uomo che non poteva morire

    L’uomo che non poteva morire riprovò a suicidarsi quella sera.
    Aprì la porta a vetri del balcone del soggiorno, rabbrividendo per il freddo, e si arrampicò sulla ringhiera.
    Si fermò un attimo nel buio, respirando aria gelata, e guardò di sotto. Non passava nessuno, a quell’ora. Bene: nessuno si sarebbe spaventato, nessuno avrebbe chiamato la polizia o l’ambulanza.
    Si sporse un po’ più avanti, ripensando a quella volta in cui si era tagliato le vene con una lametta da barba (procurandosi soltanto due antiestetici graffi) e a quando, qualche settimana prima, aveva ingerito un intero flacone di pastiglie per la pressione, ottenendo in cambio soltanto una giornata intera passata con la diarrea.

    Questa volta sarà diverso, pensò. Il corpo non potrà resistere all’impatto.

    Si sporse ancora di più.

    Chissà se farà male, pensò. Potrei finire il resto dei miei giorni in ospedale.

    Pensò a quelli che dicono “la vita è meravigliosa”, e a quanto basti poco per farti cambiare idea.
    Come tre paroline stampate da un computer, su un asettico foglio di carta. “Metastasi ampiamente diffuse”.
    E pensare che aveva passato l’intera vita dedicandosi al più stretto controllo: non fumava, non beveva, era vegetariano, faceva sport. Niente. Tutto inutile.
    Sei mesi di vita, gli avevano dato.
    Cos’aveva fatto di male, per meritarsi tutto questo, Dio solo lo sapeva, pensò.
    E forse era pure felice, di averlo punito in quel modo.

    Due lampioni illuminavano il marciapiede, incrociando le luci più o meno nel punto in cui prevedeva che sarebbe finito il suo corpo.
    Era giunto il momento.
    Sarebbe morto così, in completa solitudine. Forse avrebbero trovato il suo corpo solo qualche ora dopo, forse addirittura il mattino dopo.
    Problemi loro.

    Chiuse gli occhi e si gettò dalla ringhiera, pensando “Grazie di tutto, Dio”. La caduta dell’uomo si arrestò a mezz’aria, tra il terzo e il quarto piano.

    Che è successo?, pensò l’uomo.

    Era come se fosse caduto su una piattaforma invisibile, ma l’impatto non gli aveva procurato nessun dolore: stava cadendo, poi ad un certo punto semplicemente non cadeva più.

    E ora?

    Si guardò intorno.
    Dietro di lui, il suo condominio. Di sotto, il marciapiede, ora più vicino. Cercò di alzarsi in piedi… e all’improvviso percepì una straordinaria sensazione. Benessere, come non ne aveva mai provato prima. E leggerezza, una leggerezza assoluta.
    Avrebbe quasi potuto…
    Si diede un piccolo slancio verso l’alto. Il suo corpo si era alzato di mezzo metro.
    Sorrise.

    Il suono di una sirena ruppe il silenzio della notte. Stava arrivando la polizia, evidentemente chiamata da uno dei suoi vicini di casa che a quell’ora era ancora sveglio e aveva visto il corpo cadere.
    La volante si fermò con uno stridio di freni e ne scesero due agenti. Il primo si allontanò scrutando il marciapiede, alla ricerca del corpo.
    Il secondo osservò il condominio, alla ricerca della finestra o del balcone da cui era caduto l’uomo. Lo sguardo gli cadde tra il terzo e il quarto piano. -Oh, mio Dio-, disse, spalancando gli occhi per lo stupore.
    Si affrettò verso la volante. Prese due fari dal portabagagli, li mise per terra e li puntò verso l’alto, poi chiamò il collega.
    -Luca, vieni qui e dimmi che non sto sognando, per favore…-
    Puntò il dito verso l’uomo, che fluttuava per aria, girava su se stesso, compiva evoluzioni, faceva capriole. E rideva, e quanto rideva, come non faceva ormai da anni!
    I due agenti, da terra, lo fissavano a bocca aperta.

    L’uomo volteggiò verso il balcone, quindi rientrò nell’appartamento e si chiuse alle spalle la porta a vetri.
    Era un sogno, certo. Non poteva che essere un sogno, vero?
    Eppure, quella sensazione di gelo nel corpo era concreta. Ma c’era anche una sensazione di calore, una sensazione meravigliosa, come quella di avere ricevuto un gigantesco abbraccio da una persona che ti vuole bene… e che ha aspettato troppo, troppo tempo per dimostrartelo.
    Più che altro, lo stupiva l’avere accettato, quell’abbraccio, in maniera incondizionata: non era da lui, non era nel suo carattere.
    Ma d’altra parte i sogni sono strani, no?
    Non sapeva per quanto avesse fluttuato nell’aria, ma il suo corpo era stanco e reclamava il sonno. Si buttò sul divano più vicino e si addormentò.

    Sul marciapiede, i due agenti si scambiarono uno sguardo d’intesa. -Noi non abbiamo visto nulla, vero?-, disse Luca.
    -Per carità! Cosa dovremo avere visto?-, gli rispose il collega. Smontarono i fari, li rimisero nel portabagagli e si allontanarono.

    Qualche mese dopo, l’uomo era ancora dal radiologo per un controllo.
    Da quella notte era cambiato… qualcosa? No, tutto, o quasi. Il suo atteggiamento mentale, tanto per cominciare: si sentiva più leggero, privo di preoccupazioni. Non pensava più alla malattia o al tempo che gli restava da vivere, né aveva ritentato il suicidio.
    Ma soprattutto, il senso di solitudine che lo stava devastando era del tutto scomparso. Non avrebbe saputo spiegarlo a parole, ma era come la sensazione di sentirsi, finalmente, parte di qualcosa. Accettato. Protetto, anche. La sensazione di credere in qualcosa, di avere qualcosa per cui vivere.
    Vivere. Che magnifica parola, pensò.

    -Beh, che mi venga un colpo-, disse il radiologo.
    L’uomo ebbe un sussulto.
    -No, no, tranquillo. Credo che la macchina si sia incepp… no, funziona benissimo, invece. Vedo il cuore, i polmoni, tutto.
    E vedo che lei… beh, non ho mai visto nulla del genere, ma lei… è sano come un pesce. Le metastasi sono del tutto sparite.-

    → 10:55 PM, Mar 26
  • mamma

    -1-

    Mamma Rosa arrivò alle nove di mattina, accompagnata da due giovani volontari in tuta arancione. La fecero sedere sul divano in salotto, mentre Antonio e Lucia la osservavano con sguardo pietrificato.
    “Non si sono ancora abituati”, pensò uno dei volontari. “Probabilmente per loro è la prima volta.”
    Fu la piccola Giulia a rompere il silenzio, uno scricchiolino biondo di cinque anni. Trotterellò verso la donna e la abbracciò goffamente, gridando “Nonna!” con tutta la gioia del mondo.
    Rosa sorrise e ricambiò l’abbraccio, con tutta la delicatezza che le ossa e i novantatré anni le permettevano.
    Lucia aveva iniziato a piangere sommessamente. Si tolse gli occhiali per asciugarli con un fazzoletto, girandosi verso la parete del salotto per non farsi notare dalla figlia.
    “Ciao, mamma”, disse Antonio, con una voce che gli sembrò provenire da molto lontano.
    Rosa si girò verso di lui, sorridendogli, gli occhi azzurri velati dalla cataratta.
    “Vieni qui, tesoro”. Aprì le braccia.
    Uno dei volontari si schiarì la voce. “Scusate se vi interrompiamo, signori. Ci vediamo stasera, o provvedete voi?”
    “Provvediamo noi”, disse Lucia, tra i singhiozzi.

    -2-

    Aveva fantasticato a lungo su quel momento.
    Ma c’era troppo, troppo da dire. Non sarebbero bastati mesi, figuriamoci ventiquattr’ore.
    Tutti gli abbracci e i baci che non le aveva dato. Tutte le volte che si era allontanato da lei, ritenendo i piccoli acciacchi e le esigenze di lei quasi un peso (“Dio perdonami”, pensò), un ostacolo ai suoi progetti, alla sua carriera.
    Tutte le volte che lui le telefonava quasi per dovere, senza provare alcuna emozione nel sentirla.
    Tutte le volte che lei gli telefonava, e lui la lasciava parlare e parlare, per lo più ignorando quello che lei diceva.
    E poi ci fu quella volta, la più terribile.
    Quella in cui lui non le aveva risposto, ufficialmente occupato in un’importantissima riunione presso la sede di Londra, ma in realtà mentre ammanettava ad un letto quella giapponese con le tette rifatte.

    Avevano ricoverato sua madre il giorno stesso, scoprendo le metastasi.

    -3-

    La conversazione, durante il pranzo, fu tranquilla: il ghiaccio era ormai rotto. Antonio le raccontò dei progressi in ambito lavorativo, della promozione che sperava di ottenere, del suo amore per Lucia che cresceva ogni giorno di più. La piccola Giulia non smetteva un attimo di parlare: le raccontò dell’asilo, di quel bambino che le piaceva tanto, le fece vedere il suo orsacchiotto preferito.
    La più silenziosa era Lucia. Era sempre stata affezionata alla suocera, ma questo prima di quel giorno. Il giorno del Cambiamento, l’avevano chiamato, dopo del quale nulla fu più come prima.
    Era andata persino da uno psicologo, all’insaputa di Antonio, per prepararsi… ed ora le sembrava tutto quasi ordinario, quasi normale (ma quell’odore c’era davvero?), una tranquilla domenica in famiglia.
    Il problema era quel “quasi”, pensò, mentre Rosa annuiva, sorrideva e annuiva, lo sguardo perso nel vuoto.

    -4-

    Ora erano soli, Antonio e Rosa, seduti sul divano.
    “Mamma, io…”
    “Sssshh. Vieni qui”.
    Lo abbracciò teneramente, accarezzandogli i capelli, mentre Antonio cercava, senza riuscirci di trattenere le lacrime.
    Si staccò con delicatezza dall’abbraccio, cercando di ricomporsi.
    “Mamma…”
    “Vuoi sempre parlare tu, vero? Continui a non voler mai ascoltare gli altri?”
    Antonio tacque.
    “Ho pensato molto, in tutto questo tempo. Non abbiamo molto da fare, là, dopotutto.”
    “…e?”
    “Ho pensato a tutto l’amore che io e papà ti abbiamo dato. Ai sacrifici che abbiamo fatto, per comprarti la bicicletta, per mandarti prima a scuola e poi all’università.
    E ho pensato anche a tutte le volte che non mi hai risposto al telefono, o mi hai risposto seccato, mentre io ero sola nel mio monolocale, cercando soltanto qualcuno con cui parlare.
    E a quella volta in cui sono dovuta andare in ospedale da sola”.
    “…”
    “E sai una cosa?
    Ho pensato a tutte queste cose, e anche ad un’altra.
    Ho pensato che non ho mai smesso di amarti, nonostante tutto.
    Ho pensato che rimani sempre mio figlio, quello che si sbucciava sempre le ginocchia cadendo dalla bici, quello che prendeva sempre quattro in matematica.
    Ho pensato per tutto questo tempo, aspettando questa giornata che sembrava non arrivare mai, che l’ultimo regalo che potevo farti, il mio dovere, il senso della mia vita era questo: fartelo sapere. Continuare a farti sentire il mio abbraccio, ora e sempre”.

    -5-

    Mancavano venti minuti alla mezzanotte. Antonio, Lucia e Rosa scesero dall’auto.
    Il Giorno dei Morti era giunto quasi al termine.
    Altri due volontari li attendevano, davanti al cimitero: Rosa si avvicinò a loro a piccoli passi.
    Lucia sussurrò al marito “E’ meglio se vi lascio da soli”, quindi accese una sigaretta e si allontanò.
    “Non smetterò mai di amarti, mamma. Ora e sempre”, disse Giulio.
    Rosa sorrise.
    “Lo so, tesoro. Mi mancherai.”
    “Anche tu”.
    “…”
    Si scambiarono un ultimo abbraccio.
    “Beh, all’anno prossimo allora.”
    “All’anno prossimo.”
    I due volontari la riaccompagnarono alla sua tomba, tenendola per le braccia.
    “Mamma!”, gridò Antonio nella notte. Rosa si girò di scatto.
    “Portami con te!”
    Il volto le si rabbuiò. Scosse la testa.
    “Mamma!!!”, gridò Antonio, ancora ed ancora, mentre due guardiani si avvicinavano.

    → 7:08 PM, Mar 25
  • la nota

    Era solo un fa di pianoforte, vedi.
    Una piccola, insignificante nota musicale.
    Ero sdraiato sul letto a immaginare universi in un soffitto bianco, nella camera illuminata dalla luce di luglio, e la vidi fluttuare pigramente sotto al lampadario, dentro una bolla di sapone. Chissà come vi era finita dentro, pensai.
    Si muoveva in cerchi lenti e infiniti, un po’ come quelle mosche che riflettono sul senso della vita in certi pomeriggi estivi. Interruppe le mie elucubrazioni danzando lieve, con garbo, con leggerezza.
    E realizzai che quella nota, dopotutto, non era così dissimile da noi, noi con le nostre esistenze effimere, noi fondamentalmente inutili quando siamo da soli, ma che quando ci uniamo agli altri possiamo essere sinfonie di amore o di disperazione, concerti di sogno e di guerra, sonate di prosa e di poesia.
    La bolla, spinta da un alito di vento, si diresse lenta, lentissima, verso di me.
    Allungai l’indice e la feci esplodere.
    La nota, ora libera, volò veloce fuori dalla finestra.

    In quell’istante ebbi la risposta che cercavo. Fu un’epifania.
    Era quello, il pezzo che mi mancava. L’ultima nota del mio spartito.
    Mi resi conto che in quell’istante avevo tracciato una strada, avevo reso definitiva una scelta di vita di un certo tipo. E che il mondo intero, tutti i santi giorni, avrebbe continuato a fare di tutto per portarmi fuori strada, per farmi sbagliare, per trascinarmi nella sua cacofonia.
    Qualcuno, da lontano, iniziò a suonare Chopin.

    → 2:30 PM, Mar 25
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